Articoli di Giovanni Papini

1957


in "Gli inediti di Papini - Il Giudizio Universale":
Alessandro Magno
Pubblicato in: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXXII, fasc. 280, p. 3
Data: 24 novembre 1957


pag. 3




   ANGELO. - A te, Alessandro di Filippo il Macedone, vien rimproverata l'ambizione furiosa delle conquiste, la fame di regni e d'imperi, la smodata bramosia di gloria, lo spirito di vendetta, d'ira e di orgoglio che si mostrò in molte delle tue azioni.
   ALESSANDRO. - Per migliaia d'anni gli uomini vollero discorrere sulla mia brevissima vita ma pochi mi compresero. Ed io stesso, mentre fui vivo, non intesi pienamente la mia natura e il mio destino. Ora soltanto, alla luce della morte, vedo e scopro tutta la miseria della mia grandezza. Io fui di quelli che senton la terra troppo piccola per la loro anima, che ne soffrono come il prigioniero soffre nella sua cella, il leone schiavo nella sua fossa, il profeta nel suo silenzio. Aspiravo all'infinito, all'immenso, allo sterminato. La Macedonia era per me una stalla di barbari, la Grecia l'angusta sala d'un banchetto; il mondo intero, circoscritto nell'anello dell'Oceano, mi pareva appena sufficiente alla mia fame di spazio e al furore della mia gioventù in rivolta. Quando partii verso l'Oriente e traversai i deserti dell'Africa e i monti e i fiumi dell'Asia non fui mosso da sete di conquista ma dall'impazienza della liberazione. La mia impresa non fu una grande avventura militare ma la fuga da un carcere, la sortita da una rocca, l'evasione dalla mia reggia provinciale, dalla piccola Europa.
   Gli uomini comuni potevano contentarsi della tana dov'eran nati, del recinto dov'eran costretti a pascere. In me, invece, si agitava il lievito prepotente d'una divinità promessa, sperata, prossima, l'istinto e il volere d'essere più che un uomo, di essere già un semidio, di poter divenire un Dio. Quando, nel deserto d'Egitto, mi rinchiusi, solo, nel tempio di Ammone sentii veramente il brivido e il soffio di una investitura divina. I miei trionfi miracolosi confermarono la mia fede e provai quei tormenti che una creatura mortale e debole e finita prova quando abita in essa un'anima immortale, potente e infinita. Non riuscivo a sapere con certezza s'ero Dio o s'ero soltanto un uomo. La necessità del sonno e del cibo mi persuadeva della mia umanità; ma la fortuna delle mie gesta, il fuoco del mio petto, l'adorazione dei compagni e dei vinti m'inducevano a credermi della razza degli Dei.
   Al colmo della gloria e della potenza, sulle rive dei grandi fiumi dell'India remota, sentii però l'inutilità di tutte le conquiste. Contemplavo l'alto cielo allocato dallo scintillamento di migliaia di stelle e pensavo fra me che la conquista del nostro miserabil pianeta era un baloccarsi di povere formiche feroci ma effimere. Compresi, in quella dura tristezza dell'indomani delle vittorie, che non avrei potuto conquistare il firmamento, ch'ero soltanto l'ombra e la scimmia di Dio. Sentii che l'unica impresa degna dell'uomo è la conquista di sè medesimo per muovere alla conquista di Dio. Tutto, per me, era finito. Il fuggiasco aveva trovato soltanto una prigione un po' meno stretta, l'uomo che voleva diventar Dio si ritrovava appena un po' più grande degli altri uomini per la sua virtù di farsi amare, forse per il suo potere di farli morire.
   A un Dio fallito — grandissimo agli occhi dei piccoli, misero ai propri — non rimaneva che un'ultima fuga: la fuga nella morte. Un'indomabile febbre mi salvò, a soli trentatrè anni, dalla disperazione della mia doppia sconfitta. L'avventura del conquistatore vittorioso finiva con la disfatta. Non seppi essere uomo e non seppi essere Dio. Come uomo fui troppo ebbro, geloso degli Dei, dilaniato da quel seme divino ch'era in me. Tutti gli altri miei peccati, troppo umani, son nulla a paragone di quella vergogna e di quella sventura.


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